Lega

Da "Cattivissimi Noi" (giugno 2013)

     A proposito di fedelissimi di Bossi, una volta La Zanzara si collegò con il senatore leghista Giuseppe Leoni, mentre stava per spiccare il volo col suo piccolo aereo privato.

     P: Sì, Leoni, quello col papillon, uno dei fondatori della Lega, testimone del matrimonio di Bossi con Manuela Marrone a Palazzo Marino quando era sindaco Formentini. Ma soprattutto è il capo incontrastato da oltre dieci anni dell’Aero Club d’Italia, una specie di ente pubblico che riunisce le associazioni che promuovono il volo in tutta Italia, da quello turistico al paracadutismo. Divenne famoso perché chiamò alcuni aerei col nome di esponenti leghisti. Così solcavano i cieli italici l’I-Rmar, dedicato a Roberto Maroni, l’I-Cald, in omaggio a Calderoli, l’I-Gtr, dalle iniziali di Giulio Tremonti. Ovviamente non poteva mancare un velivolo per Bossi e un altro ribattezzato I-Noel, che è Leoni al contrario. Giudicate voi.

     C: Gli apparteneva anche un terzo del simbolo storico della Lega, che ora dice di aver “regalato” a Maroni. Dire che è un irriducibile bossiano è il minimo. «Sono uno dei pochi» ci disse una volta in diretta «che si può permettere di suonare il campanello di casa Bossi senza essere invitato. Io rimango fedele fino in fondo, anche nelle disgrazie. Per lui farei di tutto. Come un cane quando il padrone gli butta un biscotto, lo va a prendere anche buttandosi giù dalla finestra». Ma ormai fa parte di un altro mondo, di un’epoca finita con gli scandali dei soldi in Tanzania e la gestione allegra dei nostri soldi, quelli del finanziamento pubblico.

     P: Sì però non posso scordare quello che disse un giorno sui gay, collegato col cellulare non so da dove. Per lui l’omosessualità «è una deviazione, una malattia, e le persone malate non vanno emarginate». E meno male. Poi aggiunse: «Se avessi un figlio gay lo porterei subito da un medico, da uno specialista, per aiutarlo».  

     A questo punto spendiamo qualche parola anche per Piergiorgio Stiffoni, senatore della Lega per più di dieci anni ed ex tesoriere al Senato.

     C: Come no, quello che disse di essere sicuro che non esistono gay nella Lega! Come succede spesso alla Zanzara, fu la cronaca a fornirci un assist involontario. Ikea aveva appena lanciato una nuova pubblicità, in cui mostrava due uomini mano nella mano. Ci furono polemiche a non finire, che coinvolsero anche i nostri politici.

     P: Capofila della protesta e dell’indignazione era il solito Giovanardi, secondo lui lo spot andava contro la Costituzione. Noi andammo in cerca di un leghista. Stiffoni, con la sicumera tipica del Carroccio, commentò così: «A Treviso i gay sono il 10 per cento della popolazione. Anche in Parlamento ce ne sono e sono pure molto visibili. Ma nella Lega non ci sono gay. No, noi nel nostro partito abbiamo un Dna diverso. Non abbiamo mai avuto un certo tipo di situazioni, non ho mai trovato leghisti gay, stiamo parlando del niente, del sesso degli angeli». Insomma, aveva parlato di Dna, avete capito bene, il Dna.

     C: Anche lui tirava fuori un’adorazione totale per Bossi, che inseriva tra i più grandi statisti italiani della storia, non trovando in nessuno, neppure in Berlusconi, «la stessa lungimiranza e lo stesso acume del mio capo». Poi, come tutti i leghisti, era molto facile da provocare sul tema immigrati e sugli sbarchi a Lampedusa. Nel periodo drammatico delle rivolte nel Nord Africa riuscì a dire ai nostri microfoni che «i tunisini che arrivano in Italia ma solo per transitare verso altri Paesi, con le scarpe Adidas e le magliette griffate: tutta gente in salute e in carne, non possono chiedere né asilo né rifugio». Per me fu facile replicare che quelle scarpe e quelle magliette erano spesso taroccate. Ma lui imperterrito: «Che facciano a meno di metterle così non ci sbagliamo».

     P: Stiffoni è lo stesso che considerava «più importante il Parlamento padano» del Senato della Repubblica di cui faceva parte, lo stesso che diceva di «parlare italiano solo nei momenti istituzionali altrimenti la mia lingua è il veneto», ancora lo stesso che «Bossi può dire quello che vuole perché è il Capo» e «Napolitano stia al suo posto». Però alla fine dopo tanti proclami è caduto sui quattrini, patteggiando una condanna a due anni e sei mesi per la gestione dei fondi del partito al Senato. Amen.
 

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